Riflessioni sui nuovi linguaggi della comunicazione.
Vale la pena, nell’epoca della comunicazione targettizzata, chiedersi che cosa significhi la parola “conflitto”, ed in quali termini abbia affinità o si diversifichi rispetto alla “sintesi”.
La prassi del comunicare generalista, ed i suoi mezzi propri quali televisione e carta stampata, hanno sempre giocato la propria partita sull’inibizione del conflitto, e su un concetto di uniformità che, nei fatti, significava annacquamento delle peculiarità dei target specifici.
L’automobile su Canale5 era per tutti e per il contrario di tutti, attenta ad essere sportiva ma allo stesso tempo spaziosa, sicura senza dimenticare l’estetica.
I target che si integravano sui mezzi globali erano uniformati in un mondo economico-mediatico privo di conflitti interiori: i nostri spettatori erano una massa uniforme le cui differenze poggiavano al più sul momento di fruizione del prodotto, ma a livello valoriale conviventi, senza troppi problemi, nel nostro omologo contenitore sociale.
Oggi, lo auspichiamo, qualcosa sta cambiando. Non c’è più un solo pubblico amorfo, ma tanti insiemi profilabili con tratti forti e senza ambiguità.
Quando scelgo di parlare ad un pubblico non devo preoccuparmi di offenderne un’altro, perchè mi muovo nella “sezione” virtuale del mio target, ed anzi i suoi conflitti (ideologici o semplicemente consumistici) con il resto del mondo sono il fertilizzante del mio agire comunicativo.
Viva dunque il ritorno del conflitto sociale, che è ben lungi dal significare guerra, ma è invece il recupero di una dialettica che arricchisce il terreno intellettuale referente della comunicazione. I creativi si possono riappropriare di metafore ideologiche, che nella chiesa monoteista del mercato erano soltanto una scomoda empietà.